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6 migranti a casa mia

    6 migranti a casa mia

    La famiglia Calò di Camalò di Povegliano è stata insignita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella dell'onorificenze al Merito della Repubblica Italiana.

    Qui di seguito una intervista al prof. Antonio Calò sul senso della sua decisione e sulle prime riflessioni a margine di questa esperienza di accoglienza. LEGGI L'INTERVISTA >>>

    «Esprimo la grande soddisfazione delle Acli per le onorificenze conferite questa mattina dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella - ha detto Gianni Bottalico, presidente nazionale Acli -. Queste interpretano il sentire comune del popolo che riconosce il merito della solidarietà: sono i cittadini che operano quotidianamente al servizio degli altri o che spontaneamente sono capaci di straordinari gesti di altruismo coloro che vanno indicati dalle Istituzioni come modello del vivere sociale e come base per un futuro di solidarietà».

    «Questi sono i fronti attraverso cui si contribuisce a rendere il Paese migliore, da cui si sprigiona una nuova idea di società e da cui si opera una difesa civile della Patria dai mali dell'abbandono, dell'indifferenza e dell'esclusione sociale. La scelta odierna del Presidente della Repubblica non può che essere interpretata da parte della società civile e del terzo settore come un grande incoraggiamento a proseguire nell'opera quotidiana a favore dei più deboli e bisognosi, dei poveri, sapendo che i cittadini più grandi sono coloro che senza clamore spendono la loro esistenza per il bene del prossimo e per il bene comune».

     

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    Cos'è la famiglia, oggi?

      Cos'è la famiglia, oggi?

      Famiglia è una parola difficile da maneggiare perché dentro ci sono molti tipi diversi di famiglia. Nel contesto sociale così liquido in cui viviamo, dove si sono ampliati i confini della nostra libertà, va in crisi il ruolo della famiglia. Inevitabili gravi ricadute sulla natalità e sull’educazione.

      Sedici. Sono i tipi di famiglia contati dall’Istat, combinando variabili come avere o non avere figli, vivere insieme o soli, essere coniugati o no. “Corre la trasformazione della famiglia – spiega il sociologo Vittorio Filippi che raggiungiamo al telefono tra una lezione all’università e l’altra – ponendoci lontani ormai anni luce dall’idea tradizionale: oggi le specie di famiglia, o meglio le architetture affettive possibili, sono davvero numerose, frutto anche di vite sempre più libere ed individualistiche”.

      Insomma, la famiglia è sempre più “sostantivo plurale”?

      In passato l’immagine che avevamo sulla famiglia era netta, chiara, semplice. Oggi è la parola stessa ad essersi dilatata, se pensiamo molto similmente a quella di “amico”. Certo dentro alla famiglia oggi ci sono tante specie diverse; anche di matrimoni non ce n’è più solo uno: civili, religiosi, primi, secondi, tra italiani, con stranieri… E’ una fotografia che riflette la nostra epoca, più articolata, più complessa.

      Anche i compiti sostanziali della famiglia sono entrati in crisi?

      Evidentemente. La famiglia svolge dal punto di vista sociale due funzioni: mette al mondo figli – e su questo registriamo il disastro demografico (la media perché la società mantenga l’equilibrio è di 2,1 figli per donna ed in Veneto registriamo l’1,3) – e li educa. Ma anche nel compito educativo, che non può essere delegato ad altre agenzie, c’è molta fragilità, incertezza, timori.

      Da tempo lei va sostenendo che gli scenari futuri non sono rosei…

      Credo che la situazione sia tra le più critiche proprio per la denatalità che segna il nostro paese. Una società sbilanciata sugli anziani, invecchiata, declina su sé stessa, favorisce processi di emigrazione, rischia di asfissiare.

      Contano le scelte politiche “family friendly”?

      Certo. In Italia diciamo di avere un welfare familiare, in realtà significa che la famiglia si arrangia. In Francia, Svezia, Irlanda sono state messe in campo politiche natalistiche positive, che non vanno solo ad inserire premialità fiscali, orari di lavoro flessibili, ma anche servizi e reti di supporto. Anche le politiche migratorie potrebbero riequilibrare la demografia, perché gli immigrati sono di solito giovani e fanno ancora figli. Costa addirittura di meno ed ha effetti maggiori.

      Recentemente lei ha anche riflettuto su chi sta “individualmente insieme”. Cioè?

      Il contesto sociale “liquido” non aiuta a costruire con tempo e pazienza il noi che va oltre i due fragili io. Siamo diventati certamente più esigenti verso la nostra individualità e libertà, ma questo ci porta a fare i conti con la fatica del noi.

      La famiglia incrocia di questi temi le tematiche legate al gender. Lei che idea si è fatto?

      Non mi interessano le crociate ideologiche. Tuttavia dobbiamo essere consapevoli che c’è un pluralismo anche nell’affettività e che oggi non siamo più definiti come nei ruoli del passato. Facebook offre 58 identità di genere in cui rappresentarsi; in una recente ricerca è emerso che i giovani inglesi si definiscono per il 40% gender fluid. Non farei allarmismi ma credo sia importante riconoscere che siamo entrati in questa pluralità. Che del resto è una delle molteplici variabili legate all’ampliamento della sfera delle libertà che è “bello” ma può anche creare molta confusione.

      Intanto prosegue il Sinodo vaticano sulla famiglia.

      La mia impressione è che doveva essere fatto, già tempo fa. Oggi ci sono sfide enormi che toccano sfere delicatissime della vita delle persone e che chiedono un orientamento. Il rischio, altrimenti, è che i cattolici compiano scelte personali, senza seguire il magistero della Chiesa.

      In queste trasformazioni come ha influito la crisi economica?

      Ha semplicemente esasperato questi meccanismi che comunque già c’erano, soprattutto in tema di natalità. La crisi ha rappresentato un agente velocizzatore ma anche se non ci fosse stata saremo qui  parlare delle stesse cose. I numeri dicono che perdiamo in Veneto 150 nascite al mese. Sono dati pesanti che davvero ipoteticano il nostro futuro.

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      "Fermate la guerra e non vorremo più venire in Europa"

        "Fermate la guerra e non vorremo più venire in Europa"

        ACCOGLIENZA MA ANCHE INTERVENTI NEI PAESI D’ORIGINE TRA LE RISPOSTE ALLE MIGRAZIONI
        “FERMATE LA GUERRA E NON VORREMMO PIU’ VENIRE IN EUROPA”
        di Andrea Citron, Presidente Provinciale Acli

        Penso che tutti noi siamo stati toccati dalle parole di Papa Francesco: qualche domenica fa ci ha ricordato che “di fronte alla tragedia di decine di migliaia di profughi che fuggono dalla morte per la guerra e per la fame, e sono in cammino verso una speranza di vita, il Vangelo ci chiede di essere prossimi dei più piccoli e abbandonati”.

        Mezzo mondo è in movimento: individui, comunità ed interi popoli. Nulla di nuovo, certo, ma nella nostra società globale il fenomeno arriva a coinvolgere masse imponenti come mai era successo prima. Innanzitutto l’Africa Subsahariana con circa 50 milioni di migranti entro i prossimi 30 anni. Ma molte sono le aree interessate da queste migrazioni: dal Medio Oriente ai Balcani, dall’Europa al Sud Est asiatico. Pensiamo alla Siria: 22 milioni di abitanti, di cui più della metà ha dovuto abbandonare la propria casa. Circa 4 milioni di siriani sono fuggiti all’estero e ben 350 mila sono in Europa.

        Di fronte a questi numeri si capisce come il piano dell’Ue per accogliere 160 mila rifugiati siriani sia già insufficiente rispetto alle dimensioni attuali della crisi, e sarà ancora peggio con l’intensificarsi del conflitto. La situazione rischia di esplodere anche perché le condizioni di vita nei campi profughi in Libano, Turchia e Giordania, che accolgono milioni di persone fuggite dal regime di Bashar Al Hassad e dall’avanzata dell’Isis, diventano sempre più insostenibili. Oggi i siriani puntano verso l’Europa a causa della vicinanza geografica. Ma è evidente la necessità ed urgenza di un piano internazionale di accoglienza che coinvolga tutti gli stati “sviluppati”.

        Invece, ad oggi, i ricchi paesi arabi del Golfo Persico, che continuano ad avere molti interessi nel conflitto siriano, non hanno accolto praticamente nessun rifugiato mentre molti altri paesi extraeuropei continuano a mostrarsi “tiepidi” rispetto al problema.

        L’Europa, pur nella sua lentezza burocratica e frammentazione politica, si sta prendendo le proprie responsabilità; ma per evitare che il populismo xenofobo abbia sempre più seguito, è necessario che la questione dei profughi non continui ad essere considerata un problema che grava interamente sulle spalle dell’Ue.

        Del resto la mobilitazione, spesso stimolata dall’alto –che si tratti di autorità politiche o religiose – sta mostrando tutta la sua forza dal basso: gli islandesi si sono resi disponibili ad accogliere 12 mila rifugiati rispetto ai 50 promessi dal governo. In Austria il 6 settembre almeno 300 persone sono partite con le proprie auto da Vienna verso Budapest per portare i profughi fuori dall’Ungheria. In Italia molti volontari stanno aiutando le parrocchie e le associazioni che rendono meno gravoso per le istituzioni il difficile compito dell’accoglienza e identificazione che spetta al nostro paese per “posizione geografica”.

        Ma le parole di Kinan, tredicenne siriano oggi in Ungheria, - “Voi fermate la guerra in Siria e allora noi non vorremo più venire in Europa” - ci ricordano un fatto che non dobbiamo scordare mai: nessuno desidera lasciare il proprio paese, la propria gente, la propria famiglia, per essere straniero in terra lontana e sconosciuta.

        Oltre alla dovuta accoglienza di chi scappa da guerre e carestie, ci deve essere un progetto politico teso a ripristinare la pace e a far ripartire lo sviluppo nei paesi economicamente più deboli e arretrati. In Africa, ad esempio, ci sono molte piccole e medie imprese innovative che contribuiscono allo sviluppo del continente, dimostrando la sua vitalità al di là della dipendenza dalle multinazionali e dal microcredito internazionale.

        Promuovere la cooperazione allo sviluppo, aiutare la crescita di queste economie supportando la loro voglia di fare impresa, dovrà essere il nostro modo di aiutare tanti ragazzi come Kinan a poter scegliere liberamente di restare nel loro paese. Dobbiamo accompagnare molti uomini e donne alla conquista della libertà, che deve avvenire nei luoghi in cui risiedono e dai quali oggi vogliono fuggire. Libertà che è prima di tutto poter vivere in pace e mantenere con il proprio lavoro sé stessi e la famiglia.

        Per quanto riguarda l’accoglienza di chi scappa da guerra e fame ricordiamoci che la chiusura delle frontiere è dannosa e spesso semplicemente impossibile. Dovremo quindi ragionare su come governare la mobilità umana nelle sue varie forme, nelle modalità più vantaggiose possibili per i diversi soggetti coinvolti. Ci corrono in aiuto le parole di San Giovanni Paolo II in occasione della giornata della pace nel 2001, che affrontano esplicitamente il tema della migrazione: “In una materia così complessa, non ci sono formule «magiche»: è tuttavia doveroso individuare alcuni principi etici di fondo a cui fare riferimento. Primo fra tutti, è da ricordare il principio secondo cui gli immigrati vanno sempre trattati con il rispetto dovuto alla dignità di ciascuna persona umana. A questo principio deve piegarsi la pur doverosa valutazione del bene comune, quando si tratta di disciplinare i flussi immigratori. Si tratterà allora di coniugare l’accoglienza che si deve a tutti gli esseri umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti originari e per quelli sopraggiunti. Quanto alle istanze culturali di cui gli immigrati sono portatori, nella misura in cui non si pongono in antitesi ai valori etici universali, insiti nella legge naturale, ed ai diritti umani fondamentali, vanno rispettate e accolte”.

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        Una famiglia deve avere una casa dove abitare, una fabbrica dove lavorare, una scuola dove crescere i figli, un ospedale dove curarsi e una chiesa dove pregare il proprio Dio

        Giorgio La Pira