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La montagna ferita dal maltempo: una lezione per tutti

    La montagna ferita dal maltempo: una lezione per tutti

    Venti che sfiorano i 200 chilometri all'ora. Fiumi in piena, frane e viabilità interrotta. Rete elettrica e idrica a singhiozzo. 400 persone evacuate dalle proprie case. Interi boschi e sentieri cancellati.

    A poco più di due settimane dal tornado di diluvio, detriti e fango che il 29 ottobre si è abbattuto sulla provincia di Belluno, le comunità montane fanno i conti dei danni (la Regione parla di almeno un miliardo di euro) e si attivano per ripristinare collegamenti e condutture. Per sgombrare i 50mila ettari di patrimonio boschivo abbattuto. Per ripulire e riparare le abitazioni. Prima che l'arrivo del freddo complichi tutto.

    Popolazione, amministrazioni pubbliche, Protezione civile si sono mossi in fretta. Ma è una “lezione” dura eppure fondamentale, quella che si deve cogliere da quest'ultima scia di devastazione.

    Una lezione che non riguarda solo la montagna: “Fare prevenzione significa curare tutto il territorio”, dice Giuseppe Casagrande, sindaco di Pieve di Cadore. “Anche quando succede qualcosa in pianura la causa va sempre ricercata a monte. Se non riusciamo a gettare le basi di un ponte di collaborazione, il maltempo, i drammi ambientali capiteranno ad anni alterni ora in montagna ora in pianura”.

    Prevenzione: una “lezione” ancora da imparare

    La previsione dell'elevato rischio e delle possibili criticità è stata individuata correttamente dai modelli meteorologici e dai centri funzionali decentrati della Protezione civile. Addirittura con diversi giorni di anticipo. I primi avvisi sono del 26 ottobre, scatta il monitoraggio, le Prefetture chiudono le scuole il 29 e 30 ottobre, si limitano gli spostamenti.

    Se questo denota una crescente e cosciente cultura del rischio – di fronte a un episodio definito comunque anomalo e incredibilmente distruttivo anche dagli esperti, – la prevenzione non si riduce ad un semplice mezzo emergenziale di auto-protezione.

    “È la lezione che arriva da questa batosta climatica e ambientale: prevenire vuol dire curare il paesaggio, i boschi, pulire i corsi d'acqua anche quelli più piccoli”, dice Giuseppe Casagrande, grande appassionato di montagna e innamorato delle Dolomiti, come si definisce.

    Nato a Farra di Soligo nel 1954, ex giornalista Rai e oggi primo cittadino di Pieve di Cadore, “Bepi” Casagrande ribadisce che “fare prevenzione significa di anno in anno mettere da parte delle risorse, anche piccole, ma far sì che siano investite nella gestione del territorio”. 

    La montagna non è un sistema isolato

    “In aggiunta a un clima che si sta tropicalizzando, non c'è più un controllo accurato di boschi e fiumi,” è la constatazione di Flavio Cadorin, presidente provinciale delle Acli di Belluno. “Cinquant'anni fa erano risorse vitali e tenuti bene, fino all'ultimo metro quadrato, oggi quasi nessuno fa più manutenzione seria: ho visto letti dei fiumi dove il centro dell'alveo è più alto degli argini”.

    “Se non c'è cura e attenzione, prima o dopo tutto quanto si ripropone”, concorda il sindaco Casagrande, “addirittura in modo accentuato e veicolato dal cambiamento climatico globale, che permette di calcolare quasi matematicamente le probabilità che si ripeta quanto accaduto a fine ottobre. E non deve preoccuparci solo come amministratori, ma come singoli cittadini, perché spesso il Comune da solo non ce la fa con le poche risorse a disposizione”.

    La montagna non può essere considerata un ecosistema isolato. “Sia un abitante di piazza San Marco o di piazza dei Signori, sia chi vive a Cortina o Pieve di Cadore, sono responsabili alla pari del nostro futuro,” spiega Casagrande.

    “Se anche la pianura non si fa carico responsabilmente delle sorti della montagna, i danni si ripercuotono poi a valle”. Lo sforzo deve essere comune, la montagna non va dimenticata: “Avendo pochi abitanti, non conta niente sul piano politico, che guarda ai numeri. Se non riusciamo a superare questa logica, non si arriverà mai a programmare una gestione degli eventi climatici e ambientali che ci coinvolgono. Tutti”.

    Volontari “senza divisa”

    La fase di emergenza si è conclusa. Ma resta critica la situazione nell'Alto Agordino, fino al confine con l'Alto Adige, nel Comelico e in Val Visdende. “Rocca Pietore è stata un po' il simbolo dei danni maggiori arrecati dalla combinazione di vento e acqua”, spiega Giuseppe Casagrande, “mentre nel Centro Cadore, si tratta soprattutto di e case scoperchiate, una quarantina solo a Pieve, frane e strade interrotte”.

    “Anche in questa occasione abbiamo avuto la possibilità di leggere una pagina fondamentale di generosità e disponibilità da parte di tutta la gente”, ci tiene a ringraziare Casagrande. “Ho visto volontari 'senza divisa' mobilitarsi come non mai”.

    Per esempio, racconta il sindaco, una sessantina di persone, nessuno appartenente ad associazioni, si sono mobilitate e hanno sgombrato gli 11 chilometri di strada che portano ai pascoli di Vedorcia, ostruita da crolli e alberi. “In un giorno. È stata una cosa meravigliosa: nessuno gliel'ha ordinato, nemmeno quella che chiamo 'vocazione associativa', che muove gli scout, la Protezione civile, gli Alpini o il Cai”.

    Se le maggiori criticità sono in via di risoluzione, “occorre ripulire i boschi, ma non basterà mezzo secolo per risanare una ferita come quella lasciata: gli alberi non crescono in 15 giorni”, conclude Flavio Cadorin. Per le frane si è intervenuti ormai dappertutto, “hanno compromesso la viabilità ma sono state prese di petto fin da subito”, spiega Casagrande.

    Ciò che preoccupa di più anche altri comuni è l'acquedotto. A Pieve la presa d'acqua si trova in quota e la strada di avvicinamento è impraticabile: “Ora è indispensabile ricostruire il tracciato e mettere in sicurezza l'acquedotto”, dice il sindaco, “l'alternativa è non avere acqua durante l'inverno”.

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    Una famiglia deve avere una casa dove abitare, una fabbrica dove lavorare, una scuola dove crescere i figli, un ospedale dove curarsi e una chiesa dove pregare il proprio Dio

    Giorgio La Pira