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"Fermate la guerra e non vorremo più venire in Europa"

    "Fermate la guerra e non vorremo più venire in Europa"

    ACCOGLIENZA MA ANCHE INTERVENTI NEI PAESI D’ORIGINE TRA LE RISPOSTE ALLE MIGRAZIONI
    “FERMATE LA GUERRA E NON VORREMMO PIU’ VENIRE IN EUROPA”
    di Andrea Citron, Presidente Provinciale Acli

    Penso che tutti noi siamo stati toccati dalle parole di Papa Francesco: qualche domenica fa ci ha ricordato che “di fronte alla tragedia di decine di migliaia di profughi che fuggono dalla morte per la guerra e per la fame, e sono in cammino verso una speranza di vita, il Vangelo ci chiede di essere prossimi dei più piccoli e abbandonati”.

    Mezzo mondo è in movimento: individui, comunità ed interi popoli. Nulla di nuovo, certo, ma nella nostra società globale il fenomeno arriva a coinvolgere masse imponenti come mai era successo prima. Innanzitutto l’Africa Subsahariana con circa 50 milioni di migranti entro i prossimi 30 anni. Ma molte sono le aree interessate da queste migrazioni: dal Medio Oriente ai Balcani, dall’Europa al Sud Est asiatico. Pensiamo alla Siria: 22 milioni di abitanti, di cui più della metà ha dovuto abbandonare la propria casa. Circa 4 milioni di siriani sono fuggiti all’estero e ben 350 mila sono in Europa.

    Di fronte a questi numeri si capisce come il piano dell’Ue per accogliere 160 mila rifugiati siriani sia già insufficiente rispetto alle dimensioni attuali della crisi, e sarà ancora peggio con l’intensificarsi del conflitto. La situazione rischia di esplodere anche perché le condizioni di vita nei campi profughi in Libano, Turchia e Giordania, che accolgono milioni di persone fuggite dal regime di Bashar Al Hassad e dall’avanzata dell’Isis, diventano sempre più insostenibili. Oggi i siriani puntano verso l’Europa a causa della vicinanza geografica. Ma è evidente la necessità ed urgenza di un piano internazionale di accoglienza che coinvolga tutti gli stati “sviluppati”.

    Invece, ad oggi, i ricchi paesi arabi del Golfo Persico, che continuano ad avere molti interessi nel conflitto siriano, non hanno accolto praticamente nessun rifugiato mentre molti altri paesi extraeuropei continuano a mostrarsi “tiepidi” rispetto al problema.

    L’Europa, pur nella sua lentezza burocratica e frammentazione politica, si sta prendendo le proprie responsabilità; ma per evitare che il populismo xenofobo abbia sempre più seguito, è necessario che la questione dei profughi non continui ad essere considerata un problema che grava interamente sulle spalle dell’Ue.

    Del resto la mobilitazione, spesso stimolata dall’alto –che si tratti di autorità politiche o religiose – sta mostrando tutta la sua forza dal basso: gli islandesi si sono resi disponibili ad accogliere 12 mila rifugiati rispetto ai 50 promessi dal governo. In Austria il 6 settembre almeno 300 persone sono partite con le proprie auto da Vienna verso Budapest per portare i profughi fuori dall’Ungheria. In Italia molti volontari stanno aiutando le parrocchie e le associazioni che rendono meno gravoso per le istituzioni il difficile compito dell’accoglienza e identificazione che spetta al nostro paese per “posizione geografica”.

    Ma le parole di Kinan, tredicenne siriano oggi in Ungheria, - “Voi fermate la guerra in Siria e allora noi non vorremo più venire in Europa” - ci ricordano un fatto che non dobbiamo scordare mai: nessuno desidera lasciare il proprio paese, la propria gente, la propria famiglia, per essere straniero in terra lontana e sconosciuta.

    Oltre alla dovuta accoglienza di chi scappa da guerre e carestie, ci deve essere un progetto politico teso a ripristinare la pace e a far ripartire lo sviluppo nei paesi economicamente più deboli e arretrati. In Africa, ad esempio, ci sono molte piccole e medie imprese innovative che contribuiscono allo sviluppo del continente, dimostrando la sua vitalità al di là della dipendenza dalle multinazionali e dal microcredito internazionale.

    Promuovere la cooperazione allo sviluppo, aiutare la crescita di queste economie supportando la loro voglia di fare impresa, dovrà essere il nostro modo di aiutare tanti ragazzi come Kinan a poter scegliere liberamente di restare nel loro paese. Dobbiamo accompagnare molti uomini e donne alla conquista della libertà, che deve avvenire nei luoghi in cui risiedono e dai quali oggi vogliono fuggire. Libertà che è prima di tutto poter vivere in pace e mantenere con il proprio lavoro sé stessi e la famiglia.

    Per quanto riguarda l’accoglienza di chi scappa da guerra e fame ricordiamoci che la chiusura delle frontiere è dannosa e spesso semplicemente impossibile. Dovremo quindi ragionare su come governare la mobilità umana nelle sue varie forme, nelle modalità più vantaggiose possibili per i diversi soggetti coinvolti. Ci corrono in aiuto le parole di San Giovanni Paolo II in occasione della giornata della pace nel 2001, che affrontano esplicitamente il tema della migrazione: “In una materia così complessa, non ci sono formule «magiche»: è tuttavia doveroso individuare alcuni principi etici di fondo a cui fare riferimento. Primo fra tutti, è da ricordare il principio secondo cui gli immigrati vanno sempre trattati con il rispetto dovuto alla dignità di ciascuna persona umana. A questo principio deve piegarsi la pur doverosa valutazione del bene comune, quando si tratta di disciplinare i flussi immigratori. Si tratterà allora di coniugare l’accoglienza che si deve a tutti gli esseri umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti originari e per quelli sopraggiunti. Quanto alle istanze culturali di cui gli immigrati sono portatori, nella misura in cui non si pongono in antitesi ai valori etici universali, insiti nella legge naturale, ed ai diritti umani fondamentali, vanno rispettate e accolte”.

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    Una famiglia deve avere una casa dove abitare, una fabbrica dove lavorare, una scuola dove crescere i figli, un ospedale dove curarsi e una chiesa dove pregare il proprio Dio

    Giorgio La Pira